Джузеппе Ровани. Manfredo Pallavicino
(Отрывок)
INTRODUZIONE
Uno Stato che, dopo aver raggiunto, quasi potrebbe dirsi, un primato di prosperitŕ, di floridezza e di coltura, si arresta improvviso, tentenna, si sconnette, perde finalmente tutto quanto aveva acquistato con un lavoro assiduo di mezzo secolo; nč solo perde ciň che possedeva di bello e di grande, ma cade nel piů profondo della miseria e del languore; questo Stato, io dico, presenta senza dubbio uno spettacolo troppo degno che alcuno vi si fermi coll'attenzione; e tanto piů in quanto contemporaneamente e nel medesimo paese, un'altro Stato raccogliendo gli effetti del lavoro di piů secoli, e per l'impulso speciale e potente d'un uom solo, si porta invece di tratto al piů alto punto della civiltŕ, e veste uno splendore ed un lusso, dirň quasi, festoso e tripudiante.
Quest'epoca e questo paese, in cui succedono due fatti cosě opposti, offrono un bel materiale d'operazione allo storico ed all'artista. Allo storico per l'indagine sagace delle cause, per la stima sapiente degli effetti; all'artista per quel forte contrasto d'elementi, di figure, di passioni, di tinte da cui, quasi sempre, suol scaturire il bello delle opere d'immaginazione.
Perň codesto tratto di storia č l'argomento che sarebbe piaciuto poter sviluppare intero nel presente lavoro: Milano e Roma, le due prospettive da colorirsi a quelle cosě opposte intonazioni di tinte. Milano co' suoi duchi scaduti, viene a trovarsi implicata colla Francia, il suo re battagliero, i suoi luogo-tenenti crudeli; Roma e il magnifico suo pontefice che sono intesi a spegnere la folla dei tiranni nella media Italia, obbrobriosi per delitti e atrocitŕ d'ogni maniera; nel mentre questi, aiutando Francia per tenersi forte contro il pontefice vengono a concorrere alla rovina del Milanese, fintantochč, percossi da Roma piů potente, lascian nudo un fianco alla Francia, e Milano, giovata da quest'ordine di cose, da Roma, dalla lega, puň riaversi un tratto da quel duro e atroce regime.
Dramma a larghissime dimensioni, nel quale piů Stati son le figure colossali che aggruppano il nodo e s'affaticano allo scioglimento.
Se non che, trattandosi di un'opera d'immaginazione, in cui la materia storica dev'essere cosě stemprata nel diletto, che facilmente venga digerita anche dalle piů gracili intelligenze, conveniva diminuire le troppo ampie dimensioni coll'accostare la periferia piů che fosse possibile al centro, adoperando per altro di maniera, che se ne conservassero intatte le proporzioni relative; conveniva insomma far quello che fa la camera ottica, la quale, su d'una piccola tavola, raccoglie ciň che appena potrebb'essere contenuto da uno spazio di migliaia di metri.
A far questo era indispensabile un punto, che porgesse il mezzo di congiungere senza soverchia fatica, e, quel che piů importa, senz'artifizio troppo palese, tutti gli elementi cosě lontani tra loro e cosě disparati; cosa che non sarebbe stata difficile qualora, camminando suite solite orme, si fosse voluto introdurre un personaggio ideale, e dare a lui l'incarico di guidare i lettori nella via della storia, e di connettere le cause e gli effetti de' piů notabili avvenimenti.
Ma essendosi l'autore intestato che il protagonista avesse ad essere propriamente storico, se ne sarebbe al certo rimasto co' suoi desiderii, se la storia medesima non si fosse, a dir cosě, espressamente adoperata per mettergliene innanzi uno che a farlo apposta, non poteva per certo riuscir migliore.
Questo č il Manfredo Palavicino, giovane patrizio milanese, del quale l'ingegno e l'animo forte, le svariate vicende della vita e l'ultime sventure, porgevano senz'altro aiuto, abbastanza da fermar l'attenzione anche de' piů indifferenti e svogliati.
Appartenendo esso alla classe de' patrizii, sebbene avverso al loro partito, ci porge tuttavia il mezzo d'investigare quanta parte avesse quel ceto nel complessivo risultato storico rispettivamente alla Lombardia nel secolo XVI.
Avendo, per essersi incontrato nella figlia del signore di Bologna, contratte relazioni e nimicizie ed odii con taluno che dominava nella media Italia, ne fa conoscere in parte la condizione, gli usi, gli abusi; ne conduce finalmente a veder Roma, la cittŕ eterna, dove per assai tempo ebbe a fermare la sua dimora.
Nemico alla Francia, e da lei assiduamente perseguitato, caldissimo fautore di Francesco Sforza e a lui carissimo, ne mette in bella luce le virtů di questo, ne fa conoscere l'ingiustizia di quella.
Sovrattutto parve all'autore, dopo aver tentato i segreti della storia, riuscisse sovramodo interessante il gruppo di quei tre personaggi Palavicino, Ginevra Bentivoglio, Sforza, perchč in quel loro incontro, nello stesso luogo e nel medesimo tempo, in quella paritŕ di giovinezza, in quell'associazione di vita e di comunanza d'interessi, (comechč breve e lontana sia l'opera dell'ultimo di essi), in quel forte legame d'amore, a non voler star paghi del nudo fatto e della semplice cifra, gli sembrň vedere qualche cosa piů di un puro accidente, ma alcun che invece di altamente prestabilito, ma una mano, provvida e sapiente che avesse espressamente gettate nel mondo e aggruppate quelle tre creature, perchč nel mentre avevano a soffrire per le colpe dei loro padri e della loro classe, ne fossero in una volta l'espiazione e la riparazione potente.
In questi tempi, in cui la fantasia stranamente prodiga di taluno de' nostri vicini d'oltremonte č usa imbandire cosě laute e forse indigeste mense alla folla incontentabile, ed a stordire il lettore nella sua noja piů forse che ad appagarlo nelle sue pretese, lo trascina, quasi potrebbe dirsi, a coda di cavallo, sul popolato campo della vita attuale. In questi tempi che i labbri, viziati dagli spiritosi e forti liquori, facilmente fastidiscono ogni altra bevanda che loro sia porta, č ardua cosa assai il gettare alle moltitudini un libro qualunque esso sia.
Perň l'autore non puň dissimulare l'insolito timore dal quale č preso nel pubblicare il presente.
Di sč, dell'opera propria ha sempre dubitato e dubita tuttavia, con sensibile stringimento dei precordi, non tanto perň quanto dell'inesorabile pubblico. Di questo pubblico sazio dall'abuso, indifferente, svogliato, e per nulla disposto a sperar bene di un lavoro che sia fatto da italiano, stampato in Italia, trattante italiane cose, e che lasciando il presente, benchč senza mai dimenticarlo, risalga al passato.
Ad ogni modo il libro č questo. L'autore vi si č applicato con amore, che nel corso dell'opera talvolta fu piů, talvolta fu meno, talvolta eccessivo, talvolta anche nullo; ne ha concepita inoltre qualche speranza che comparve, disparve e ricomparve coll'assidua intermittenza delle febbri terzane. Ora quel che ne attenda, non saprebbe dir con certezza. Il lettore ci provveda, provvedeteci voi, amabili leggitrici, e perciň vogliate ascoltare una parola ancora.
Se talvolta facendo la via per certe aride steppe, l'ambio della cavalcatura fia per esser lento qualche poco, procurate rintuzzare il soporifero della noja, rintuzzarlo confortandovi nel pensiero che verrŕ il tempo delle corse affannate, delle aspettazioni ansiose, delle scosse non attese, dei forti affetti, e degli angori, piů dell'acre cipolla, formidabile ai vasi lacrimali; e che forse anche dopo caduto il libro dalle mani vostre, le oscillazioni vorranno continuare per qualche poco ancora.—L'autore lo spera—Sperate anche voi.
PERIODO PRIMO
CAPITOLO PRIMO
Quel canto della contrada delle Ore, ove alzando un tratto lo sguardo, si ha il vantaggio, di vedere un lato della chiesa di s. Gottardo e la torre del suo famoso orologio, che č sempre un buon pezzo d'architettura, non fu mai, a nessun'epoca, oggetto di molta attenzione; ed č in questa parte, dove la massima noja viene oggidě ad assalire il granatiere del corpo che vi passeggia a guardia; soltanto trecentoventinove anni or fanno[*], il giorno de' santi Cornelio e Cipriano, che cadeva allora al tredici settembre, la parte di popolazione che poteva reggersi sulle gambe, passň quasi tutta per di lŕ, a gettare un'occhiata ben attenta a quell'angolo che in quel dě ebbe un successo, quale non ebbe a vantar mai nč prima nč dopo. A quel canto si vedeva bensě un'immagine di Maria Vergine, che ora non c'č piů, dipinta piuttosto male da uno scolaro di Luino per mezzo scudo del sole, con innanzi due torchietti sempre accesi e due vasi di fiori sempre freschi, alla cui conservazione e spesa tanto ordinarie che straordinarie sopratendeva il barbiere che vi avea bottega lě presso. Del resto non offrendo allora quel luogo nulla di diverso da quanto possa offrire oggidě, si poteva ragionevolmente maravigliarsi vedendovi una cosě gran moltitudine ferma ad osservare, non potevasi congetturar cosa. Ma nella notte prima, quando battevano le sei ore appunto all'orologio di San Gottardo, un gentiluomo, accompagnato da un suo famiglio, era stato colŕ assalito da quattro soldati con spadoni e pugnali; il gentiluomo n'era rimasto affatto affatto illeso; e i quattro assassini, inseguiti, agguantati, percossi, e strettamente legati dalle guardie svizzere dell'eccellentissimo duca, erano stati condotti in castello. Avvenimento che da tutti era qualificato per un vero miracolo, la cui spiegazione non poteva esser difficile, per essersi commesso l'attentato sotto gli occhi medesimi della Vergine Santissima.
[*] La prima edizione della presente storia fu pubblicata nel 1845.
La folla aveva cominciato fermarvisi, a che appena suonava la prima avemmaria in Duomo, e cambiata e rinnovata, č impossibile dir quante volte, vi stava stipata or tuttavia che i monsignori nella sagrestia orientale s'adattavano in fretta la cappamagna, battendo in quella gli ultimi tocchi de' vespri; trattavi anche allora, come sempre, da quella specie d'istinto pel quale ci sembra che la presenza del luogo ov'č avvenuto un gran fatto ci aiuti a ricostruircelo in mente, anche senza esserne stati testimoni, e malgrado il silenzio delle muraglie. Del resto, ad un simile silenzio s'affannava in quel giorno di soccorrere l'eccessiva loquacitŕ del barbiere, il quale, fin dalla notte, s'era, al rumore insolito, affacciato alla finestra, aveva anche esso data una voce, aveva veduto e traveduto; all'alba, chiamato giů dagli avventori che lo martellarono di domande, aveva saziata la curiositŕ loro; interrogato poi da tutti quanti passavano per di lŕ, s'era assunto l'ufficio di narratore, e quelle cinque o sei frasi, nelle quali stava racchiusa tutta la storia del fatto; le aveva quel di repetute, non si puň calcolare quante centinaia di volte.
E anche in questo momento che continuavano i tocchi della campana de' vespri, stava intertenendo dell'avvenuto due o tre che attentamente lo ascoltavano.—Ecco, qui, diceva, quando mi sono affacciato col lampione, gli assassini fuggivano per di qui, e i due soldati della guardia venivan giŕ loro alle coste molto bene, intanto che sei o sette labarde del duca correvano a furia dalla piazza. Il marchese stava fermo a questo posto, lo vedete… a questo posto qui dove son io; teneva ancor sfoderata la spada, e dicendo al famiglio che cessasse ormai dal gridare tant'alto, che piů non era bisogno, rideva vedendolo cosě fuori di sč; ma colui era tanto scalmanato che non l'udiva nemmanco, e continuava a mandar grida.
—E tu cos'hai fatto allora?
—Per me non sarei giŕ disceso, cari signori; ma quando m'accorsi ch'era il Palavicino, gli diedi una voce e dissi: Signor marchese, si faccia coraggio! e venni abbasso e uscii sulla strada. Dico al marchese: Fate a modo mio, bevete un bicchiere di Monterobbio, che ne ho ancora una botticina per fortuna… e so cos'č spavento…. A queste mie parole lui s'č messo a ridere… e….
—Diavolo… volevi che si sconciasse per sě poco uno che fu alla battaglia di Ravenna e di Novara?
—In quanto a questo avete torto, chč la guerra č tutt'altro gioco…. Ma, come dicevo, lui s'č messo a ridere e mi prese la mano, giŕ sapete quanto č affabile quel signore, e mi fece tenere un mezzo ducatone, che č questo qui che vedete, ancor nuovo di zecca, e mi disse: Il Monterobbio lo berrete voi. Dopo si volse un tratto all'immagine della Madonna, e levatosi il berretto, mi parve dicesse delle divozioni, e subito dopo tornň a Palazzo.
A questo punto pareva che il barbiere avesse finito di parlare, ma si volse in quella ad un altro.
—Vorrei mň sapere precisamente, diceva quel tale, come fu codesta storia di jeri notte?
—Ecco qui; quand'io mi sono affacciato gli assassini fuggivano….
—Oh, basta! entrarono allora a dire ad una voce molti borghesi, che quella storia l'avean giŕ sentita a ripetere piů di tre e piů di quattro volte. Di questo ne sappiamo assai…. Adesso sarebbe una gran cosa il poter sapere chi ha pagati i sicarj….
—Questo č bene quanto vorrei sapere anch'io; ma… fammi indovin….
—Io l'avrei bene il mio sospetto.
—Sentiamo, sentiamo, sentiamo.
—Siccome ognun sa i brutti guai che intervennero fra il giovane ed il vecchio marchese suo padre, e in che duro modo esso abbia cacciato fuor di casa il flgliuol suo, e che anche adesso lo vorrebbe morto, tanto č trasportato dall'ira, perchč sia cosě stretto amico dello Sforza, pensando poi che domani il giovane marchese sarŕ a combattere contro i Francesi, pe' quali il pessimo vecchio darebbe l'anima, cosě crederei….
—Oibň, oibň! che dite mai?… un padre?… Ma un padre puň bene far tutto che vuole, non mai attentare alla vita del proprio figliuolo…. Oibň!… che diavolo avete detto?
—Ma cosa so io?… se ne odono di cosě strane a' nostri di, che….
—No-no-no, entrň a parlare un terzo, che s'era allora allora accostato al crocchio, e al quale tutti fecer largo; Carl'Ambrogio ha parlato bene…. Un padre, per quanti dispetti possa avere, non si attenterŕ mai di fare una cosě infame azione. Sapete piuttosto cosa sarŕ?… Sarŕ, che siccome a' Francesi č noto che il Palavicino č caldo amico dello Sforza, e che la sua buona spada pesa per dieci, e va poi innanzi a tutti nell'odiar loro, cosě crederei….
—Oh questa č grossa, č grossa, il mio caro Burigozzo.
—Ma lasciatemi dire.
—Ho compreso bene, non si sbaglia; ma č grossa, torno a ripetere. Se dŕ la sorte, i Francesi che voi dite non san forse nemmanco che esista il marchese. Il marchese č noto qui fra noi, perchč semina, come suol dirsi, i ducati per le contrade. Č noto pei grossi guai che ha detto qui Carl'Ambrogio, per le tante lagrime che č costato a quella cara donna di sua madre, la quale avrebbe avuto a ringraziar Dio se fosse caduta morta il dě stesso che andň sposa del vecchio marchese: per queste cose dunque esso č noto fra noi; ma fuori del Ducato chi volete che sappia nulla di tutto ciň? E i Francesi?… Ma posto anche che i Francesi conoscan lui, com'io conosco voi…. e cosě…. che credereste?… potrebbe lor forse dar ombra codesto giovane, per quanto sia buona la lama della sua spada?…. Č grossa, insomma; č grossa, e non mi par vero che abbiate parlato voi!
Facendo questi e simili discorsi quelle tre o quattro persone, passo passo, allontanandosi da quel luogo, trassero sotto la piazza del duomo, attraversata la quale, si ridussero verso al portico de' Figini, dove tornarono ad unirsi in crocchio permanente innanzi ad una bottega di merciaio.
Se un pittore, al quale un comittente, buon amico de' tempi andati, desse a ritrarre in tela una radunata di popolo nel principio del secolo XVI sulla piazza del duomo, si credesse, senza passare piů in lŕ, di poter rispondere al bell'assunto, col fare il suo bozzetto ritraendo la piazza quale si presenta oggidě, farebbe assai male le cose sue.
Nč basta che anche in oggi sia quell'area medesima di tre secoli fanno, quel medesimo duomo; quel portico, quel palazzo ducale istesso. La mano del tempo, quella degli uomini, il progresso, e talvolta, se pur vuolsi, il regresso, coll'assiduo mutare e rimutare, tanto e poi tanto vi ha tolto ed aggiunto, che se il buon Burigozzo, che noi abbiam veduto ridursi alla sua bottega, tornasse, per un miracolo, tra' vivi, assai penerebbe ad orientarsi.
Quella gran macchina del duomo incompiuta, coperta di tanti impalcamenti quante sono adesso le sue guglie, era tale ormai che giŕ faceva inarcar le ciglia di stupore a' riguardanti; ed anzi non dando luogo a determinare precisamente, per la sua imperfezione medesima, quel che ne sarebbe riuscito, condotta che fosse all'ultimo termine, faceva che nella fantasia degli spettatori, come suole avvenire, piů ancora se ne ampliassero le giŕ colossali dimensioni. Nč la natura e piů che tutto la forma degli edifizi che le stavano intorno contrastavano a quella gotica mole. Il portico de' Figini, surto da quasi due secoli, non presentava quell'incomportabile miscuglio d'architettura che tanto offende oggidě. Su quelle colonne, su quegli archi a sesto poggiava un sul piano di case co' finestroni di forma al tutto gotica, ornati di pietre cotte ad arabeschi e aventi nel mezzo una sottile colonna sulla quale si congiungevano due piccoli archi; tutta quella parte d'edificio che dalle colonne s'innalzava al tetto, per la forma, per gli ornati, per la tinta di un rosso fatto cupo dal tempo, rendeva immagine press'a poco dell'odierna facciata dell'Ospedal Maggiore. Rimpetto al portico dove or sorge quel rozzissimo corpo d'edifizi, senza un colorito al mondo nč di tempi, nč di civiltŕ, nč fosse pur anco di vetusta barbarie, l'area era allora affatto sgombra, e soltanto sorgeva qui e colŕ alcune trabacche, le quali per altro non impedivano che l'occhio da quel lato spaziasse per un ambito infinitamente piů ampio che non sia oggidě, e per cui tutto si vedeva il palazzo ducale, d'architettura gotica esso pure, esso pure contesto di pietre cotte, alle quali il tempo aveva dato quella tinta severa, che segna, se puň passar l'espressione, l'aristocrazia degli edifizi; archi a sesto acuto in fila, finestroni larghi, alti, a due archi, ad ornati arabeschi. Stemma visconteo e sforzesco in vetta a tutte le porte.
L'uniformitŕ dunque dell'architettura in due distinti edifizi che sorgevano accanto al duomo, la loro tinta severa era ben lontana dal produrre quella sensazione disgustosa che oggi per avventura puň nascere in chi stia contemplando quel pensiero sublime, gigantesco, incomparabile del tempio, in mezzo alle tante incompatibili, dirň, sgrammaticature che gli stanno intorno.
Un altro edifizio poi concorreva col resto a far sě che la piazza si mostrasse allora con aspetto sě diverso da quel d'oggigiorno, ed era la chiesa di santa Tecla, l'antichissima ausiliaria del maggior tempio milanese, la quale gli sorgeva quasi di fronte e guardava colla facciata la strada Marzia che le si apriva rimpetto.
E quale all'epoca, a cui ci troviamo, presentavasi la piazza, si puň anche dire si presentasse la cittŕ, su la cui faccia architettonica, parlando de' principali edifězi, v'era un colorito di etŕ e di grandezza che presso noi č al tutto scomparsa. Ad onore del vero si ha a dire bensě che immensamente ha guadagnato in quanto a comodo ed a pulitezza; e come potrebbe essere altrimenti? che scomparvero quelle vie bistorte, quelle fronti mostruose di case, gl'impuri angiporti, le corrompenti chiaviche, le lobbie, i cavalcavia, le bicocche, le impalcature che allora la deturpavano; ma con queste quante altre cose scomparvero! Quanto ha perduto in faccia all'arte, in faccia alla storia! A vederla com'č oggi, sembra in tutto una cittŕ surta da ieri; per conoscere la sua vita č mestieri ricorrere al volume, nč per richiamarsi in mente le sue epoche memorabili non basta un colpo d'occhio che si getti su lei da qualche eminenza; tutto fu raschiato via, parrebbe a bell'apposta, dagli artistici pregiudizi, costringendola, direi quasi, a far la figura d'un patrizio, il cui nome per demeriti siasi voluto scancellare dal libro d'oro.
E almeno si fosse atterrate le vecchie cose incuriosi delle memorie venerabili che loro erano state commesse, per lasciar modo all'arte di tentar nuovi campi; e all'epoca nostra di vestirsi di forme tutte proprie. Ma le cose di un'antichitŕ a noi piů vicina parvero incomportabili appunto, pel desiderio di riabilitare le linee di duemila anni fa.
Del rimanente contagio č codesto comune a quasi tutta Europa, e con tante istituzioni e che so io, si č giunto ovunque a rendere di un calore uniforme i prodotti delle varie intelligenze. I guardacosta del preteso buon gusto, piů oculati di un assistente di dogana, vegliano assidui sui contrabbandi delle fantasie d'oggidě; immobili come un dio termine, incorruttibili come la sentinella che mise la baionetta alla vita di Bonaparte, gridando tuttodě all'umano ingegno: On ne passe pas—di qui non si passa.—Almeno fossero stati tenaci di questo sistema, anche allorquando trattavasi di lasciar com'erano le cose vecchie nelle quali la storia era inviscerata; ma per una strana combinazione allora appunto se ne dimenticarono; perň sarŕ ottima cosa che noi lasciamo in pace i presentě e ritorniamo tra quel crocchio ormai numeroso che sta fermo innanzi alla bottega del merciaio Burigozzo.
Costui, a que' tempi assai lontano dal sospettare che l'immortalitŕ sarebbesi preso l'incomodo di prender nota del suo nome, e ch'egli trasportato dalla corrente degli anni, sarebbe disceso giů giů insino a noi in compagnia di molti illustri, non era allora cospicuo che per una insaziabile curiositŕ di conoscere i fatti altrui, e una disposizione infaticabile a cicalare ed a fiscaleggiare il terzo e il quarto per raccogliere le notizie esatte di quanto avveniva in Milano. Tutte qualitŕ che ad un occhio avvezzo avrebbero potuto rivelare uno storico; ma inallora il suo genio se ne stava latente nell'involucro adiposo della sua bassa persona che egli aveva il costume di dondolare ogniqualvolta stesse a dare od a ricever parola da qualcheduno. La sua loquacitŕ poi veniva mantenuta ed accresciuta dall'utile che in linea commerciale egli ne traeva, giacchč i molti suoi avventori una volta che si ponessero a sedere alle tavole collocate ai lati della bottega, non sapevano staccarsene cosě facilmente, per la qual cosa allorquando, alla Torre de' Mercanti suonava la grossa campana delle quattro ore di notte egli si trovava aver vuotate molte pinte d'acetosella e d'acquavite, giacchč č a sapersi ch'eran molti i generi di commercio che si vendevano in quella sua bottega, e alla vendita del frustagno, del bucherame e delle stringhe soprintendeva l'attempata sua moglie cui la natura era stata liberale come a lui, del dono invidiabile della parola.
Ritornato adunque che fu il Burigozzo alla sua bottega, intanto che si affannava a persuadere a quel suo preopinante che il colpo tentato contro la persona del marchese Palavicino non poteva venire che dalla Francia, fu improvvisamente interrotto dalle voci agre e sgarbate di alcuni soldati e da un caporale svizzero che s'eran gettati a sedere su d'una di quelle panche e volevano l'acquavite. Il Burigozzo troncň allora a mezzo la parola che stava per uscirgli di bocca, e non lasciň che il caporale svizzero comandasse una seconda volta. Cosě, dopo avergli messa innanzi una panciuta damigiana, non fu contento finchč non ebbe fatta anche a lui la sua interrogazione.
—E cosě, caporale, non han giŕ voluto che piů vi stesse a dondolare, e presto si scalderanno ancora le vostre miccie contro i nemici che tornano a mostrarvi il viso.
—Si scalderanno e non si scalderanno, rispose il caporale; che cosa sai tu?
—So che i Francesi si son giŕ fatti vedere a poche miglia da
Milano… dunque….
—Dunque… io t'ho chiesto acquavite che raspi e sčdano che morda… e non m'hai dato nč una cosa nč altra… e queste che ho sotto i denti paion frasche di zucca… in quanto poi ai nemici che tu dici….
—Ci son forse novitŕ?
—Novitŕ?… Certo che ci potrebbero essere le novitŕ….
Qui messasi alla bocca la panciuta damigiana, e bevutone un cosě largo sorso come se fosse acqua:
—Nelle campagne dell'Unterwald, riprese poi, si poteva bene tirare innanzi tre, quattro, sei mesi senza vedere il gheld dei tre cantoni, perchč il formaggio di capra, e la cervogia non manca mai colŕ. Ma codesto paese tuo ha piů d'un malanno, e all'aria grossa che ti fiacca le gambe maladettamente, puoi metter di costa che, se non hai un testone col sant'Ambrogio in saccoccia, per quel dě puoi startene a stomaco vuoto; con questo volevo dirti, che se dentr'oggi l'eccellentissimo signor duca non ce ne dŕ una manata, (che le promesse non bastano, ed ha un bel gridare il prete che ci comanda) puoi stare ben certo, come se lo dicesse il Tell, che mai non disse una menzogna al mondo, che noi non si combatterŕ, e i signori Francesi potranno benissimo restar serviti.
—E a che ora si uscirŕ domani di cittŕ, caporale?
—Oggi per le ventiquattro abbiamo a trovarci in castello tutti quanti.
—Questo lo so.
—Se poi fioccheranno denari, domani, prima dell'alba, si uscirŕ.
—E se i denari non ci fossero?
—Si troveranno.
—Trovarli… č presto detto. Ma io so che la cassa ducale č stramenzita affatto.
—Non c'č altri che il duca forse?… Quel che il duca non sa fare, lo farŕ bene la cittŕ, e lo farete voi…. Non č la prima volta. Intanto prenditi i tuoi due testimoni, che oggi o domani me li avrai a restituire in altro modo.
Qui il caporale si alzň, e con lui gli altri svizzeri, che volgendo uno sguardo sprezzatore a quel crocchio di persone per mezzo alle quali avevano a passare, si tolsero di lŕ. Nč ad un attento osservatore sarebbe sfuggito con che mal'occhio li guardava dal canto suo la moltitudine, memore delle concussioni che il cardinale di Sion aveva insolentemente esercitate su tutti quanti i cittadini milanesi per pagare e satollare que' suoi Svizzeri affamati, ne' quali, dopo la vittoria di Novara, era la superbia cresciuta a dismisura, e verso i cittadini milanesi si comportavano come padroni, e peggio.
Il Burigozzo, come que' cinque furon partiti.
—E cosě, disse a chi gli stava intorno, siete capaci ora, che la storia della paga sia quale ve l'ho narrata io stesso stamattina? Mettetevi dunque in memoria che il Burigozzo non dice mai cosa in fallo.
—Sta a vedere che tu ne saprai piů del Morone e del prete soldato….
—Io non so nulla; ma avete sentito… perň la storia della paga mi dŕ a pensare….
—Attendi a vendere il tuo bucherame e la tua acquavite, e non darti un pensiero al mondo di tutte queste cose, che giŕ č lo stesso….
Ma il Burigozzo non dava retta a queste parole, e continuava come parlando fra sč:
—Messer Bernardino Corio, che mi vuol bene e che si degna intrattenersi con me qualche volta, mi diceva un tal giorno, che codesta cittŕ nostra, la quale non č ampia gran fatto, pure ha i suoi duecentomila e piů cittadini.
—Adesso c'č la storia dei duecentomila.
—Sicuro il mio Carl'Ambrogio, c'č, e ci dev'essere anche la storia dei duecentomila, perchč, dico io, č tal cosa che non fa molt'onore, che in tanto popolo non ci sia da mettere insieme quindici o venti migliaia di uomini… e questi Svizzeri che, a saziarli, ci vuole un bue per ogni quattro, rimandarli al loro Cantone, dove c'č la Cervogia e il formaggio di capra.
—Sin qui non pare che tu pensi male.
—E non ci sarebbe allora gran bisogno di paghe, e il duca non si troverebbe ora tanto allo stretto.
—In quanto a ciň, s'egli č a sě duro punto, suo danno.
—Capisco cosa vuoi dire tu! Se l'eccellentissimo signor duca invece di regalare avesse venduto, non mancherebbero le paghe.
—Qui sta il punto, Burigozzo, e la tua storia dei duecentomila non ci ha a che fare gran fatto. Domando io se al Morone c'era bisogno di regalare la contea di Lecco, Vigevano al cardinale, la Ghiarra d'Adda al Lampugnano: terre che rendono pan d'oro e fiorini a staia… e so cosa dico!
—Manco roba, manco affanni, dice il proverbio, e pare che il duca l'abbia intesa cosě.
—Ma pur troppo non avrŕ ad intendere questo solo; e a questo re che se ne viene con tanta brava gente, e piů bravo lui di tutti, come dicono, e non ha ventun'anni, converrŕ bene ch'ei dia luogo o si rechi in villeggiatura.
—Pure se quelli che contano in paese fosser tutti della tempra del Palavicino, e d'altri pochi, il duca non si troverebbe in cosě pericolose acque; ma no, tutti a rovescio, e l'altro dě il conte Besozzo e il Gabaloita e il marchese Birago e il Sacramoro e altri troppi se ne uscirono di cittŕ, e chi č tra le stoppie e le pozzanghere ci pensi…. E davvero ch'io mi chiamo assai fortunato di vestir questo saio piuttosto che le vesti ducali, le quali in questo momento devono al certo bruciare le carni di chi le porta….
Qui s'interruppe, e con lui tacquero tutti quanti trovavansi sulla piazza. I muggiti dei leoni del serraglio ducale, espandendosi in quella del palazzo per tutta la piazza, avevano imposto quel generale silenzio. E tutte le teste involontariamente si volsero colŕ. All'orologio della Torre de' Mercanti suonavano le ventiquattro. Poco dopo scomparvero tutte le guardie dinanzi al palazzo del duca e tutte le porte si chiusero….
Rechiamoci ora a vedere se in questo momento le vesti ducali bruciassero davvero le carni di Massimiliano Sforza, come ha detto il Burigozzo.
Критика